Per un Pugno di Dollari: La Guerra Petrolifera Russo-Saudita

Mohammed Bin Salman, Vladimir Putin e Donald J.Trump
Collage made by L. Trento

L’economia globale, già in ginocchio per l’emergenza Covid-19, ha ricevuto un altro colpo dallo scontro petrolifero in atto tra Arabia Saudita e Russia.

La guerra dei prezzi scatenata da Riyad, ha fatto precipitare il prezzo del greggio sotto i 30 dollari al barile. Una cifra  che potrebbe apparire positiva ai consumatori, ma che rappresenta uno scenario da incubo per qualsiasi Paese produttore di idrocarburi. La rottura tra Riyad e Mosca è avvenuta dopo tre anni di collaborazione, durante i quali il Cremlino aveva accettato più volte di tagliare la propria produzione di greggio assieme ai paesi dell’OPEC,  in modo tale da mantenere alto e costante il prezzo del petrolio. Un matrimonio che, seppur certamente inusuale, fino a sei mesi fa veniva lodato dal Ministro dell’energia saudita, con lo slogan “finché morte non ci separi”.

Durante l’ultimo meeting dell’OPEC+, tenutosi a Vienna lo scorso 6 Marzo, tuttavia, la Russia ha rifiutato i nuovi tagli alla produzione proposti dai Sauditi, i quali, stizziti dalla risposta di Mosca, hanno annunciato di voler inondare i mercati col proprio petrolio, vendendolo con delle tariffe altamente scontate. Lunedì 9 Marzo il prezzo del greggio è quindi precipitato del 30%, facendo registrare il peggior crollo giornaliero dalla Guerra del Golfo del 1991; Goldman Sachs stima che il prezzo del petrolio potrebbe scendere ancora, raggiungendo addirittura la quota di 20 dollari al barile.

I prezzi del petrolio erano già cominciati a scendere a causa della diffusione del Covid-19, la cui diffusione ha paralizzato l’economia del più grande importatore di petrolio al mondo: la Cina. Il virus ha poi colpito Corea del Sud e Giappone,  le quali rappresentano, assieme a Pechino, i principali mercati d’approdo del greggio Saudita. Riyad aveva quindi bisogno di un nuovo accordo per tagliare la produzione, in modo da bilanciare l’offerta di greggio con la domanda ormai in picchiata.

Il governo russo però non erano affatto d’accordo: Dal punto di vista di Mosca la politica dei tagli adottata negli ultimi anni era andata eccessivamente a vantaggio dell’industria petrolifera americana. Gli Stati Uniti infatti sono stati protagonisti negli ultimi anni di un boom della produzione del greggio, stimolata dai prezzi alti, che li ha portati al primo posto fra i produttori mondiali.

Courtesy of STATISTA

Questa rapida ascesa è stata possibile grazie allo “Shale Oil” americano, un petrolio prodotto dalle rocce di scisto, la cui estrazione implica però un costo maggiore rispetto a quello convenzionale. Per molti produttori americani è quindi molto difficile avere dei ricavi se i prezzi scendono troppo in basso. Il governo di Mosca inoltre era profondamente irritato per le sanzioni economiche contro “Rosneft”, il gigante petrolifero di proprietà dello Stato russo, imposte da Washington il mese scorso per aver supportato la vendita di greggio venezuelano. In questo quadro il crollo dei prezzi appariva dunque come un’occasione d’oro per colpire l’industria petrolifera americana.

Prezzi così bassi però sono difficili da sostenere nel lungo termine anche per l’Arabia Saudita e la Russia, essendo i due Stati fortemente dipendenti dagli introiti petroliferi per coprire i propri bilanci statali. Entrambi i Paesi dovranno quindi necessariamente mettere mano alle loro immense riserve di valuta estera — accumulate negli anni in vista di momenti come questo — per evitare tagli alla spesa, pagare il debito estero e le importazioni. Le riserve saudite e russe ammontano rispettivamente a 490 e 440 miliardi di dollari.

Lo scontro si traduce quindi in un lungo e lento dissanguamento, rispetto al quale entrambe le potenze scommettono di essere in grado di poter sopravvivere. Riyad sembra disposta a sopportarne i danni, pur di punire Mosca per non aver accettato l’accordo. Un vero e proprio “Game of Chicken”, come viene chiamato in teoria dei giochi, nel quale chi dei due tornerà al tavolo per discutere avrà salvato entrambi, ma avrà perso la sfida.

Vladimir Putin & Mohammed Bin Salman – Wikimedia Commons

Nessuno fra i leader delle due Nazioni sarà però disposto a farlo nel breve periodo. Entrambi infatti attraversano una fase interna molto delicata, in cui stanno cercando di consolidare ulteriormente il proprio potere. Il giovane principe ereditario Mohammad Bin Salman è finito nuovamente sotto i riflettori in seguito ai recenti arresti dei suoi rivali nella famiglia reale saudita. Vladimir Putin invece è in attesa del prossimo 22 Aprile, giornata in cui i cittadini russi saranno chiamati alle urne per confermare o respingere una riforma costituzionale che, se passasse, permetterebbe al Presidente russo di azzerare i suoi precedenti mandati, e di rimanere potenzialmente in carica fino al 2036.

Secondo Pavel Molchanov, direttore di Raymond James Financial e analista specializzato in azioni petrolifere, intervistato alla CNBC, è proprio il 22 Aprile la data da tenere d’occhio: Putin infatti non potrà abdicare dal proprio ruolo di uomo forte, almeno fino alla prova del referendum.

Jeff Colgan, professore associato di Scienza Politica alla Brown Univerity, intervistato da Al-Jazeera, ha dichiarato che sull’eventuale fine dello scontro influirà anche lo stato di salute delle industrie petrolifere americane: se a causa dei prezzi troppo bassi, si dovessero registrare numerose bancarotte, acquisizioni o fusioni fra queste, il leader russo potrebbe ritenersi soddisfatto dei danni ricevuti dagli americani, e decidere di chiedere una tregua ai sauditi. 

Se questo non dovesse accadere, lo scontro terminerà in ogni caso quando uno dei due attori non potrà più permettersi di vendere il proprio greggio per un pugno di dollari.

Di Leonardo “João” Trento